Ed eccomi qui, di nuovo.
L’uomo del bar oggi non ha portato
niente e il tavolo ha resti di croissant e mozziconi schiacciati dentro
un portacenere di vetro.
Dopo le notti passate ad ascoltare la voglia
di vederti ora non guardo altro che la distesa immensa di questo mare
dove vorrei affogare queste emozioni che hanno smosso polvere e detriti
nel luogo dentro di me che ti appartiene.
Non riesco più a
voltarmi, sai, non so se ho paura di trovarti o se il terrore
è non vedere più i tuoi occhi.
Ma devo
controllare e voglio anche vedere se l’uomo del bar si
è finalmente accorto della mia presenza.
Così
riapro gli occhi e in lontananza vedo che stai camminando con il tuo
passo lento e il tuo giubbotto gettato sulle spalle.
Forse stai andando
via e non ti sei accorta che io sono seduto qua ad aspettarti.
Sembra
che oggi nessuno sia in grado di vedermi.
Mi alzo e cerco di
raggiungerti, anche se questo, mi rendo conto ora, vuol dire che
dovrò parlarti, chiederti dove stai andando, se stai
cercando me o se semplicemente hai deciso che non
c’è più davvero niente che valga la
pena di vedere.
Arrivi fino al porto e poi vai verso la parte vecchia del paese.
Ti
seguo mentre continui a camminare, fino alle mura vecchie e un
po’ scrostate che servono a proteggere viali alberati e
ballatoi pieni di luci e di dolore.
Che cosa cerchi qui?
Questo non
è un luogo adatto a te e poi non hai nemmeno detto una
parola, non mi hai guardato, non mi hai considerato; eppure io ho
vissuto tutta la vita ad aspettarti, sognando il giorno in cui ti avrei
incontrato.
Mi fermo un attimo a riflettere sulla stranezza di questo
luogo inusuale e tu scompari, ti perdi dentro i viali silenziosi.
Devo
raggiungerti, non è possibile lasciarti andare sola, non in
un luogo come questo.
Entro e ti vedo: sei ferma in uno dei vialetti
quasi nascosta da una siepe, lo sguardo è rivolto verso il
basso, le mani che stringono un po’ troppo forte il tuo
giubbotto.
Io mi avvicino e so che ora non posso fare altro: devo
parlarti.
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