Ci sono invece giorni in cui io mi incammino lungo le strade strette di questo paesino e cambio i miei orizzonti.
Sento persone intorno a me che parlano di cose che ormai non mi appartengono, non mi sorprendono.
Arrivo quasi al limitare delle onde e mi siedo sempre rivolto verso il mare perché non riesco a sopportare cose o persone che siano a distanze limitate.
L’uomo del bar ormai mi riconosce e senza che io lo debba chiedere porta un caffè nero e acqua fredda.
Appoggia tutto sopra il tavolo, senza parlare, senza necessità di gentilezze inutili o vacui sorrisi di circostanza.
Mi rassicura questa consuetudine.
Mi rassicura questo ripetersi di gesti e di persone che quasi riesce a dare un senso alla tua assenza.
Come se fosse uno spezzone di una pellicola consunta che si ripete all’infinito.
Un film che spiega l’attimo che segue la devastazione, quando non hai ripreso a respirare e non sai ancora se sei vivo.
È quasi un limbo dove il dolore è solo un boato che da qualche istante si è perso all’orizzonte e la disperazione arriva solo se il respiro si fa profondo e smuove il sedimento dentro l’anima.
L’attimo prima della morte, o l’attimo dopo.
Così io bevo il mio caffè e poi riapro gli occhi e lascio che lo sguardo si perda nuovamente dentro il mare.
Riprendo il mio cercarti e non so dove tu sia.
Forse è proprio per questo che guardo solo spazi immensi, enormi, sconosciuti: tu sei dentro di me come una malattia ma non riesco mai a vederti in altri luoghi, non riesco mai a sentire niente di più che grida, che paura.
Cammino sopra un filo teso e non so dove cominci, non so dove finisca, non so nulla di più di ciò che vedo: un mare immenso e occhi che si perdono.