Il Cardiologo ha smesso di ascoltare.
Fissa lo schermo mentre le mie parole si sgonfiano e poi diventano polvere nel silenzio assorto della stanza piena zeppa di strumenti.
L'unico movimento percepibile è il passaggio ripetuto della piccola “spatola” da una costola all'altra.
Il medico spinge il suo strumento e lo muove mentre è nella parte superiore del costato.
Rimane invece immobile quando preme in quella inferiore.
Io non ricordo più di cosa stavo parlando: la polvere è finita chissà dove e il nuovo silenzio dovrebbe far paura, anzi terrore.
- Ci sono problemi? - chiedo.
Lui continua ad alternare i due spazi tra le costole e sono sicuro che non mi abbia sentito.
Dovrei cominciare a essere preoccupato ma incredibilmente sono tranquillo: osservo tutta la scena come uno spettatore attento.
Non riesco a vedere il monitor dalla mia posizione e anche se potessi, dubito che riuscirei a capire.
L'esame si chiama “Eco Doppler” e da qualche parte c'è pure la parola “Color” ma non so esattamente dove.
Serve a vedere il cuore e le grandi arterie e l'unica cosa che a volte sono riuscito a percepire è il movimento strabiliante di una valvola che apre e chiude chissà quale atrio o ventricolo.
Si vede con chiarezza un lembo di chissà–che–cosa che si agita, si muove.
Si possono intuire le contrazioni e poi la macchina emette anche un rumore ripetuto, come se un microfono si fosse acceso all'improvviso proprio all'interno di quel piccolo muscolo così incredibilmente semplice nei compiti che la natura o un qualsiasi Dio gli ha assegnato.
Riceve sangue senza ossigeno e lo spinge con forza a un nuovo giro dopo averlo rifornito.
Il Dio Ingegnere che ha progettato questa meraviglia doveva essere stanco o forse ha lasciato a qualche assistente poco scaltro il compito di definire i dettagli conclusivi.
I vasi che portano nutrimento al tessuto cardiaco si ammalano, si chiudono e se non arriva sangue il tessuto muore con una velocità che a volte non lascia scampo.
- Un attimo, mi scusi -
Il medico si alza e va alla scrivania. Parla al telefono e chiede del Primario.
Poi torna verso di me e mostra sullo schermo uno spazio vuoto di linee e di puntini.
- Guardi - dice - qui sembra tutto normale ma se cambiamo l'angolatura...-
Lo spazio ora contiene qualcosa che assomiglia a una pallina, legata alla parete da un filo sottile.
Si muove, si agita a ogni contrazione.
- Un trombo - dice lui.
Un coagulo dentro il ventricolo sinistro.



Aspetto il treno.
C'è tanta gente intorno a me, sembrano ologrammi, non hanno odore né colore e non sento le loro voci.
È tutto così distante, così ridotto all'essenziale, senza dislivelli o apici, come un tracciato che mostra solo una minima attività senza importanza.
Mi sento insensibile al freddo, al dolore e forse anche alla morte.
Trasporto una bomba nascosta tra le costole, avvolta dentro l'endocardio.
Nessuno può vederla, disinnescarla oppure capire quanto la mia vita sia letteralmente appesa a un filo: quello sottile che tiene il coagulo attaccato alla parete del ventricolo.
Dovrei essere terrorizzato, nascosto nell'angolo più buio, legato a un macchinario che miracolosamente veicola le emozioni verso un circuito extra-corporeo capace di dissolvere il dolore, con le migliori menti della mia generazione che dopo essersi vestite e aver mangiato qualche cosa, sono venute tutte al mio capezzale a controllare dolcemente manometri e livelli.
Invece sono qui, aspetto un treno e non sono in grado di guardare oltre questo orizzonte che arriva fino a un attimo prima della paura.
Nessuno può leggere i miei occhi, nessuno si rende conto di quello che mi accade, è tutto immobile come in una favola stantia.
È come se la notizia avesse spento gran parte della capacità di elaborare pensieri logici.
Per venti anni ho vissuto con il timore che da un momento all'altro il cuore, inteso come muscolo, potesse cedere.
Per lungo tempo ogni visita di controllo era soggetta a un'eccedenza bagaglio fatta di fiato sospeso, di timore.
- Cosa succede se l'aneurisma cede? - avevo chiesto e la paura aveva il sapore esotico di un trapianto di cuore.
Ora ho la risposta a quella domanda.
Qualcuno infilerà le mani nel mio petto per estirpare il male insieme a grumi di sangue rappreso e alla malinconia.
E allora aspetto un treno perché devo scappare via dalla certezza del disastro, così posso evitare di coinvolgere chi sta vicino a me in questo terrore che invece appartiene di diritto solo a me.
Lo so, questi due giorni saranno soltanto un sogno, una parentesi, per affrontare l'uragano che si sta delineando all'orizzonte.
E poi ci sono questioni che devo sistemare prima di entrare in ospedale, devo spiegare cosa accadrà domani e devo anche dare istruzioni nel caso non dovessi risvegliarmi.
Lo so, fa male.
Le lacrime salgono come una tempesta in mare aperto ma è questa la realtà, è questo il mostro contro cui devo combattere e devo farlo io, nessuno può farlo al posto mio.
Devo essere forte, tenere a bada la fragilità, il senso di inadeguatezza, convincermi che tutto andrà perfettamente bene e che lo smarrimento, così come le lacrime, sono un lusso che non mi è concesso.
Allora cerco di disorientare la paura, la prendo per mano e la conduco ad occhi bassi verso sentieri che si perdono, sciocche questioni senza senso, un vacuo vivere di istanti che non prevede profondità o picchi.
Un luogo semplice e sicuro, fatto di aria, acqua e pochi pensieri.
E in questo mio piccolo universo c'è un cuore appiccicato al pavimento.
C'è un nome al centro e passo il mio tempo a immaginare Nina, a quanto amore la circondi.
Chissà se chi lo ha incollato al pavimento sia poi riuscito a farsi perdonare oppure a raccogliere promesse di giorni a venire.
Chissà se Nina sa di avere un cuore che sfida il vento e il calpestio dei viaggiatori.
C'è una ferita, in alto, forse la prima avvisaglia del crollo inevitabile.
Perché si sa che le ferite non curate infettano il cuore, fanno morire.
Respiro un po' più forte, il treno sta arrivando e devo ricordarmi di sorridere.



La notte è passata e anche se può sembrare una affermazione banale, è un dato di fatto di estrema importanza.
Sono rimasto sveglio fino a dopo mezzanotte e, contrariamente a quanto paventato, non ero preda del terrore, non ho pensato di barricarmi in bagno oppure semplicemente di incamminarmi verso l'uscita e non fermarmi mai come un Forrest Gump un po’ meno intelligente.
Ieri è stata una giornata piena di preparativi: la depilazione, la doccia, la disinfezione.
Poi è venuto l'anestesista che ha raccontato per sommi capi quello che sarà l'intervento.
Appena arrivato in sala operatoria, mi addormenteranno, mi infileranno in gola il tubo endotracheale e poi anche una sonda per monitorare il cuore una volta che avranno ricominciato a farci passare il sangue.
Poi apriranno e divaricheranno lo sterno, clampaggio dell'aorta, circolazione extracorporea e fermeranno il cuore.
Praticamente è stato come il racconto di un film dell'orrore ma sono due settimane che mi preparo a quello che tra poco mi accadrà: una preparazione tutta personale fatta di terrore tenuto a bada dall'utilizzo intensivo di una razionalità inaspettata, sempre sull'orlo di un baratro profondo.
Sono in buone mani, il reparto di cardiochirurgia è praticamente il migliore attualmente nel nostro Paese, sono giovane, non ho alternative, andrà tutto bene, andrà tutto bene, andrà tutto bene...
Un mantra ripetuto nelle notti insonni in grado di regalarmi la consapevolezza che fa da baluardo contro la paura.
Una diga immaginaria che crolla miseramente non appena uno dei medici accenna anche lontanamente all'intervento.
Tutto questo per due ere geologiche concentrate nelle due settimane di attesa e di controlli.
Fino all'annuncio ufficiale con data e orario.
Fino all'ultimo miglio che mi accingo a percorrere.
Mi sento come un condannato a morte, soggetto a procedure standard di preparazione che si susseguono, incuranti di sentimenti e stati d'animo.
La differenza è che per cena ho avuto solo pastina in brodo e un po’ di purè: non proprio un lauto pasto.
È venuto anche un giovane chirurgo ed è interessante notare come si tratti di un duello tra un essere umano con la paura di morire e un altro che infilerà le mani dentro la carne, arrivando a toccare il cuore. Uno cerca sostegno, l'altro si guarda bene dal dare rassicurazioni perché conosce i rischi e gli azzardi di una pratica che dovrebbe restare appannaggio degli Dei e non degli uomini.
Il gran giorno è dunque arrivato.
La sveglia è stata così presto che sembra quasi di essermi addormentato da soli dieci minuti.
Devo indossare il camice verde e mi fanno sdraiare su un letto con lenzuola verdi.
Chissà se la scelta del colore ha a che fare con la speranza.
Poi arriva l'infermiere con la faccia addolorata di chi sa perfettamente cosa ti aspetta e mi porge un bicchierino con trenta gocce di Valium.
Trenta gocce di Valium.
Per dormire meglio.




Arrivano due infermiere completamente vestite di verde e mi chiedono nome e cognome.
Non le vedo bene perché sono senza occhiali, ma tanto non c'è niente da vedere: mi devono portare in sala operatoria.
Sono stranamente tranquillo o perlomeno la rassegnazione ha raggiunto il suo apice.
Santo Valium, suppongo.
Mi danno il tempo di salutare la mia compagna e non ricordo che cosa ci siamo detti, proprio non me lo ricordo accidenti.
Nel tragitto in ascensore una delle due mi chiede se è mia moglie e così le racconto brevemente di come l'ho conosciuta e lei ride scioccamente e un po’ troppo forte.
Riesco anche a pensare che questo faccia parte delle procedure: distrarre il paziente nel breve tragitto tra il letto e il mattatoio per evitare fughe o arresti cardio-circolatori.
Così, in questo clima assurdo di allegria e di spensieratezza, arriviamo al piano delle sale operatorie e dopo aver attraversato due corridoi, entriamo in un'anticamera stretta e mi lasciano poco oltre la porta.
La sala vera e propria è alla mia destra e vedo solo le luci, più forti di quelle che illuminano lo stanzino dove sono parcheggiato.
Comincio a sentire freddo: sono praticamente nudo, ho solo il camice verde oltre al lenzuolo.
Sento voci che provengono dalla sala operatoria ma è tutto confuso, ovattato.
Poi la porta si apre e un nuovo individuo vestito di verde mi passa accanto e sparisce, inghiottito dalla luce del luogo misterioso dove sono destinato.
Qualcuno si affaccia e ad alta voce mi chiede nome, cognome, luogo e data di nascita.
Sono stupito, meravigliato della mia assoluta consapevolezza di ciò che sta per accadere e ancora di più del fatto di non avere la forza o forse anche solo l'istinto di scappare via o piangere come un bambino.
Da piccolo, per un prelievo di sangue, fu necessaria la presenza di due infermieri grandi e grossi che mi immobilizzarono sotto gli occhi di mio padre, terrorizzati almeno quanto i miei.
Ecco, forse oltre al Valium mi hanno dato una droga che scioglie la paura, che addormenta l'anima e riduce la capacità di realizzare una realtà difficile non permettendo al corpo di ubbidire al terrore, alla paura della morte.
Bisognerebbe averne la dispensa piena, per ogni evenienza.
Mentre mi chiedo per quanto tempo rimarrò parcheggiato, si affaccia un altro essere vestito di verde e chiede di nuovo nome, cognome, luogo e data di nascita.
Forse la volta scorsa non lo hanno annotato e se lo sono dimenticato.
Forse quello a cui ho rivelato chi sono e dove sono nato, senza badare alla mia privacy, non ha condiviso le informazioni.
Forse mi ruberà il bancomat o la mia pagina Facebook.
Pazientemente ripeto i dati e la voce che mi esce è morbida, rotonda.
Mi sarei aspettato un suono stridulo, il fiato corto.
Mentalmente mi dico che il prossimo che me lo chiede verrà cazziato ma poi mi rendo conto che non ho voglia di scherzare, non c'è nulla da ridere: tra poco mi apriranno il petto alla ricerca del mio male e lo estirperanno come se fosse Alien, qualcosa capace di nutrirsi di me e della mia anima fino a farmi morire.
Questa considerazione mi mette addosso un filo d'ansia o forse è il freddo che comincia a essere un problema.
Ecco, se mi chiedono ancora chi sono posso pretendere in cambio una coperta, va bene anche se è verde, non mi importa..
Invece all'improvviso esce un altro essere, verde ovviamente, che senza dire nulla mi spinge verso l'antro misterioso e la luce inghiotte tutti i miei pensieri.
Ora è non c'è più davvero niente che io possa fare.
Ora sono nelle loro mani e non servirebbe nemmeno gridare o scappare o mordere oppure confessare che ho paura.
Paura da morire.
Paura di morire.




Dentro la luce c'è un viavai di persone vestite di verde.
La stanza non è grande e ci sono macchinari e monitor dappertutto.
Non vedo con chiarezza quello che mi circonda e forse non sono nemmeno interessato.
Dev'essere la paura o il Valium perché la mia curiosità protesta, sommessamente, già ampiamente rintontita dalle benzodiazepine ma ancora sufficientemente viva da pretendere la mia collaborazione per sapere cosa racconterà di me quel monitor e a che cosa serve quella tastiera senza lettere.
Mi lasciano qualche minuto a galleggiare in quel luna-park di luci e macchinari quasi come se fossi solo un soprammobile di cui ancora non sia nota la destinazione, ma immancabile arriva la domanda: nome, cognome, data e luogo di nascita.
Che palle.
Segnatevelo con il pennarello indelebile, magari sul palmo della mano, no?
Forse è meglio di no.
Questo mondo di luci, macchinari ed esseri dalla memoria corta, vestiti di verde, è il limbo dove rimarrò sospeso dalla vita per un tempo indefinito e sono l'ospite d'onore, la causa, la ragione, il senso.
Tutte le macchine saranno accese per me e si prenderanno cura dei miei respiri, del mio battito, della mia vita in bilico tra giorni a venire e un buio senza fine che mi terrorizza.
Tutto deve essere perfettamente oliato e non ci possono essere dimenticanze o malintesi.
Si devono accertare che io sia proprio quello raccontato in modo meticoloso dalle radiografie e dai tracciati misteriosi di ecografie e risonanze, devono essere certi che io non sia, per errore, quello in attesa per un varicocele o un'ulcera duodenale.
Io devo essere operato al cuore.
Devono tagliarlo, metterci una toppa, ricucire come fa il mio calzolaio peruviano con i miei stivali preferiti.
Devono regalarmi tempo per guardare fuori dalla mia finestra, per assaporare la mattina quando è ancora buio e tutto ancora deve essere vissuto, usato, sgualcito.
Devono regalarmi ancora gli occhi di mia figlia, come vent'anni fa, dopo l'infarto, quando i suoi occhi potevo solo immaginarli.
E allora non perdiamo tempo e cominciamo.
Come se avessero ascoltato il fiume in piena dei miei pensieri, mi spostano e avvicinano il catafalco verde al tavolo operatorio.
Oddio, forse “tavolo” non è proprio esatto come termine per descriverlo.
Meglio “panca operatoria” perché in effetti è un'asse di non so quale materiale che a malapena mi contiene. Devo stringere il braccio destro per non farlo penzolare fuori mentre il sinistro viene adagiato su una derivazione, come se fosse un braccio di una croce.
(perché mi vengono queste similitudini terrificanti?)
Mi tolgono il lenzuolo verde e d'improvviso il freddo mi assale, come un branco di lupi affamati.
Ci sono due omini verdi che lavorano sul mio polso sinistro, forse stanno cercando il posto esatto dove far passare il chiodo, mentre qualcuno impietosito mi domanda se ho freddo.
Freddo?
Sto congelando, cazzo.
Mi coprono e infilano tra i piedi un tubo che butta aria calda e con un tempismo sicuramente studiato nei minimi dettagli, i due “Visitor” verdi, affaccendati intorno al mio braccio sinistro, infilano un ago in profondità nel polso.
Il bastone e la carota, penso.
È l'ultimo pensiero, l'ultimo bagliore di luce.
Il mondo si dissolve senza che io possa nemmeno rendermi conto.
Se la morte è così non c'è da aver paura.




Il fotogramma successivo è totalmente nero e me ne rendo conto solo ora.
Ora è "dopo" mentre il fotogramma nero è "prima" e questa certezza mi accompagna mentre apro gli occhi.
È tutto confuso intorno, sento delle voci ma faccio fatica a mettere a fuoco le immagini.
Sono sdraiato su un letto e di sicuro ci sono delle persone intorno a me, ne sento le voci ma non riesco a vederle, non riesco a muovere la testa, non riesco a capire cosa dicono.
Riesco a muovere gli occhi ma le immagini sono confuse, forse perché non ho gli occhiali, forse perché sono morto.
È un faticoso riemergere da quel buio totale, da quel primo fotogramma tutto nero che, ne ho la certezza assoluta, è parte integrante della mia vita ma prima non lo sapevo mentre ora l'ho visto e so di certo che appartiene a me, a un passato che non so dire quanto sia lontano.
- È andato tutto bene - dice una voce che non saprei localizzare.
Forse è di lato al mio letto o forse è dentro la mia testa.
- Tra poco togliamo il tubo endotracheale - dice ancora la stessa voce, ma ora sembra che arrivi dall'alto, da sopra, anche se non so esattamente dove sia sopra e dove sia sotto.
Il tubo endotracheale, già.
Lo sento ora, mi occupa la bocca, la gola e lo sento rigido dentro nel mio petto.
Mi avevano avvisato che con il tubo non sarebbe stato possibile parlare perché viene inserito tra le corde vocali ma non potevo immaginare che "non poter parlare" volesse dire questo blocco totale, questa assenza assoluta, come se non avessi mai parlato in vita mia e non sapessi cosa vuol dire emettere dei suoni.
Questa nuova consapevolezza del tubo mi mette un filo di ansia; avevo paura di questo momento, ho sempre avuto difficoltà con gli strumenti che arrivano troppo in profondità nella mia bocca.
Questo nella vita precedente, perché c'è una vita precedente e c'è un "ora" che è un luogo sconosciuto, non perfettamente a fuoco, dove i processi cognitivi sono lenti e graduali, dove il terrore abita a pochi passi da ogni pensiero.
Da poco sono uscito dal buio di quel fotogramma e ho imparato che ci sono voci e tubi.
E che è andato tutto bene.
Non respiro.
È il tubo endotracheale, collegato a una macchina, che respira per me e mentre galleggio su questo nuovo baratro spaventoso, si avvicinano delle persone, degli esseri indistinti, non so nemmeno quanti siano.
- Ora ti togliamo il tubo - dice qualcuno e qualcun'altro aggiunge che tutto è andato talmente bene che sono in grado di estrarre il tubo dalla mia gola anche se sono passati solo venti minuti dal risveglio.
Non mi dicono di soffiare, come nei telefilm e sono contento perché non saprei davvero come fare.
Vedo le loro ombre accalcarsi su di me e poi sento che afferrano qualcosa che è parte integrante della mia bocca, del mio petto.
Non sembra un tubo, sembra piuttosto un bastone, un pezzo di ferro infilzato dentro di me come una spada.
Non faccio in tempo a impaurirmi di questa nuova conoscenza che sfilano da me l'intruso, velocemente e senza dolore.
Tossisco immediatamente, come se l'aria fosse una massa gelatinosa che d'improvviso ha invaso i miei polmoni.
È la prima tosse della mia nuova vita, non proprio piacevole, ma riprendo a respirare.
Sto respirando e dunque sono vivo.
- Non è scontato sai che si possa togliere il tubo endotracheale così presto - dice una voce femminile.
Riesco anche a vedere dei contorni, un'ombra che sta guardando qualcosa di fianco a me e poi passa dalla parte opposta del letto.
Con uno sforzo enorme giro leggermente la testa e riesco a vedere la sua mano e una siringa che inietta qualcosa in un tubicino.
Sento un'onda calda che parte dal collo e si propaga in tutto il corpo.
Morfina, credo.
- Che ore sono? - chiedo.
La voce è uscita a fatica, come se abitasse un luogo profondo, lontano.
Ha un suono leggero, un soffio di vento e non so se qualcuno è riuscito a percepirla.
- Le sei di pomeriggio - dice la voce femminile e per un attimo mi soffermo sulla collocazione temporale.
Pomeriggio.
Quindi è oggi che mi hanno operato, poco più di dieci ore fa.
Lo avevano detto: non mi avrebbero risvegliato dopo l'intervento. Lo avrebbero fatto solo dopo la stabilizzazione dei valori.
- Ti sei svegliato da solo - continua a dire la voce. - È inconsueto, ma molto positivo - precisa.
Ho gli occhi chiusi e ho cominciato a interrogare il mio corpo per sapere chi sono visto che sul "dove" ho qualche cognizione, ma non riesco a vedere per avere conferma delle mie supposizioni.
Probabilmente sono in terapia intensiva, in rianimazione, nel luogo dove rinascono le persone a cui hanno fermato il cuore, tagliato il respiro e tolto il sangue dalle vene. Sento rumori e sento il mio cuore che batte, batte velocemente e lo fa in sincrono con un rumore particolare che arriva dal fondo del mio letto, una specie di ritmo sincopato, come un batterista che usa le spazzole sul suo rullante. 
Non sento dolore, o almeno non c'è un dolore che emerge da una sensazione diffusa di indolenzimento, ma il respiro si ferma un attimo prima di fitte che sento nel petto.
E poi probabilmente sono pieno di Morfina.
Alla mia sinistra si materializza all'improvviso il chirurgo che mi ha operato ed è la prima persona che riesco a vedere bene, che riconosco, nonostante la mia miopia e la situazione oggettiva.
Mi guarda con un'espressione che non riesco a definire: pena, soddisfazione, comprensione...
È venuto a salutarmi, a vedere come sto.
- È andato tutto bene - dice.
- Siamo riusciti a fare un buon lavoro, ora deve solo avere pazienza e riposare - aggiunge.
Non so nemmeno se sono riuscito a dirgli grazie o se ho solo chiuso gli occhi assaporando di nuovo la certezza che il peggio sia passato.
Forse mi sono addormentato o forse sono piombato in una condizione di incoscienza perché ho solo l'immagine di ombre che ogni tanto passano a infilare aghi, cambiare le flebo, guardare i monitor che improvvisamente hanno cominciato a fare rumori o forse sono io che ora li sento mentre prima sentivo soltanto il battito del cuore.
Il mio cuore.




L'ambulanza è arrivata e i tre addetti mi guardano come si guarda un mobile da caricare sopra il camion.
Ci dev'essere stato qualche problema fra di loro perché serpeggia un evidente nervosismo.
Uno di loro si muove a scatti, con efficientismo esagerato e gli altri due assecondano con fare colpevole l'atteggiamento un po' arrogante del collega.
Devono trasferirmi in una struttura sanitaria dove si prenderanno cura di me, della riabilitazione del mio cuore; una struttura specializzata per i pazienti che hanno subìto un intervento di cardio chirurgia.
Il medico mi ha informato in mattinata, dicendomi che era un regalo che il reparto mi faceva.
Scherzava, credo, ma nemmeno troppo, forse.
Così hanno iniziato a togliere quello che era rimasto delle sonde, dei fili elettrici e dei tubi di drenaggio che hanno sostenuto la mia vita da quando sono uscito dalla sala operatoria.
Avevano iniziato con il contropulsatore, il mio batterista immaginario con la sigaretta in bocca, quello che ha seguito il ritmo del mio cuore senza fermarsi mai, per quasi due giorni dopo l'intervento.
Qualcosa infilato nella mia arteria femorale finiva in un macchinario che dava una mano al cuore, contraendosi e pompando in modo che il lavoro non fosse esclusivo appannaggio del muscolo ferito.
Un medico lo ha sfilato e poi è rimasto a lungo a tamponare la ferita in modo che l'arteria potesse chiudersi e sopportare la pressione del sangue.
Poi è stata la volta del sondino naso-gastrico e non è stato proprio un piacere.
Avevo aghi infilati nel collo e nelle braccia, due tubi uscivano direttamente dal mio addome e dalla ferita operatoria spuntavano due fili che solo successivamente ho scoperto essere un collegamento elettrico con il cuore per l'eventuale applicazione in urgenza del defibrillatore.
Ero un puntaspilli, un ripostiglio di lame e di coltelli, tutti infilzati direttamente nella carne.
Per tutto il tempo passato in rianimazione ho combattuto con il terrore antico della macelleria umana.
Non ero una persona, non ero un uomo: ero un pezzo di carne su cui chiunque e in qualsiasi momento poteva a piacimento infilare aghi o sonde. Avevano pieno possesso di me, delle mie braccia, delle gambe; avevano il diritto di entrare nel mio petto.
Potevano tagliare, farmi a pezzi o prelevare sangue cercandolo in profondità dentro di me, lasciandomi tutte le volte terrorizzato e esausto.
E non potevo nemmeno avere la Morfina perché dopo le prime ore il mio corpo aveva rifiutato quel veleno prelibato, le ondate calde, il dolce torpore che il papavero regala e preferiva dosi massicce di paracetamolo.
Io mi sentivo devastato, tagliato, ricucito in modo approssimativo e mi sembrava di sentire, dentro la testa, le urla strazianti di progenitori antichi, soggetti a torture disumane per confessare delitti immaginari oppure semplicemente per il gusto perverso del dolore.
Non riuscivo a sopportare le mani e gli sguardi di tutti coloro che si avvicinavano al mio letto perché sapevo che volevano da me il sangue, il sudore, le lacrime insieme a pezzi della mia bocca rinsecchita, della mia gola in fiamme, lasciandomi solo il terrore e quel bruciore che sentivo dentro il petto.
Il tempo era scandito da una flebo che ogni sei ore mi toglieva un po' di quel dolore e mi rintontiva, senza che il sonno fosse in alcun modo di ristoro, senza che fosse neanche sonno.
Così, quando il giorno dopo l'intervento, la mia compagna è finalmente apparsa, non sono riuscito a resistere alla sensazione della sua mano che mi stringeva forte, anche se c'era amore e solidarietà e speranza in quella mano. Non sopportavo che altre mani toccassero il disastro e d'improvviso è tracimato tutto il terrore che aveva riempito le mie vene, tutti gli spettri e i mostri di un incubo terribile in cui vieni ucciso mille volte e vedi il sangue uscire da tutte le ferite e sei ancora vivo soltanto per sentire il suo sapore e il suo odore.
Nemmeno il pianto, un pianto disperato e senza lacrime, è riuscito a togliere il veleno del terrore dal mio corpo e non servivano i tubi di drenaggio o il catetere, piantato senza ritegno dentro il mio sesso.
Dovevo assaporarlo quel terrore, ero costretto a nutrire la mia anima con la sensazione di una morte atroce, ed era esattamente questo il mio dolore e non c'era Morfina capace di addolcirlo.
Sono sicuro che la reazione a un intervento chirurgico importante sia un fatto soggettivo e credo che il problema, nel mio caso, sia stata l'assenza assoluta di sintomi del male che aveva colpito il cuore: io stavo bene e non avevo difficoltà a salire scale o arrampicarmi per le strade strette e tortuose di una Sicilia calda e meravigliosa. Al mattatoio ci sono andato con le mie gambe e senza un plausibile motivo, convinto dai tracciati misteriosi mostrati da uno schermo che raccontava un cuore che non riusciva più a pompare sangue a sufficienza.
Niente che rendesse indispensabile ai miei occhi quell'incubo. Niente che dipingesse il terrore come un passaggio necessario verso una luce più diffusa.
E ora sono qui e da poco sono libero dai tubi di drenaggio, strappati via non senza difficoltà insieme ai fili elettrici collegati al cuore.
Ieri mi hanno fatto sedere per la prima volta e il mondo sembrava inusuale visto dalla posizione eretta.
Sentivo il peso del mio corpo, sentivo l'aria su ogni centimetro di pelle, sentivo che non ero ancora pronto per sfidare il mondo. Però vedevo per la prima volta che proprio davanti a me c'era una strada e non aveva più detriti a impedire il mio cammino.
Potevo immaginare che prima o poi sarebbe entrata luce dalla mia finestra e sono riuscito anche a sorridere.